Venne la poesia
Questo percorso raccoglie le poesie che sono state premiate nella seconda edizione del Concorso Semi diVersi, svoltasi nel 2023 per volontà dell’Amministrazione Comunale di Riese Pio X e che ha visto partecipare 287 persone dai 6 anni in su. Questo secondo invito ha riscosso ancor più successo rispetto alla precedente edizione, registrando un numero maggiore di partecipanti e dimostrando come la poesia sia, al pari della musica, della pittura, del disegno, della letteratura, della produzione di un film, un’arte viva e diffusa. Le poesie di questo percorso lo dimostrano: sono artefatti dell’agire umano e in quanto tali si salvano dalla pervasività della tecnologia regalando, a chi lo sa cogliere, un modo diverso di vedere e apprezzare le cose di questa vita
Scuola Primaria
PRIMO PREMIO
Originale componimento con la personificazione della penna come se essa si animasse e cominciasse a parlare durante le, talvolta monotone, lezioni di scuola, ordinando altezzosamente azioni che richiedono avidamente l’attenzione dell’autore, il quale non riesce a restare impassibile all’invito di scrivere.
Il componimento omaggia questo concorso di poesia sottolineando l’essenza della poesia e della scrittura come atto liberatorio delle proprie emozioni, riportando su carta, con l’inchiostro, la propria personalità e pensiero creativo.
Ricaricami non ho energia,
mi sono persa, trovami.
Sono stanca di stare ferma, usami,
mi annoio ora di stare con te, prestami.
Che tristezza, riconsegnami.
Scriviamo! Impugnami!
Non farmi scappare, legami!
Oh no mi hai perso!
Adesso cercami!
SECONDO PREMIO
In questa poesia l’autore/l’autrice si immedesima in tre distinte entità. Prima di tutto nel vento: si muove, scompiglia, disordina e colora come lui; poi in un musicista, per annunciare in musica l’arrivo di una nuova stagione; infine nella luna, oggetto celeste a cui attribuisce la capacità di illuminare il buio ma anche i propri desideri. Attraverso il linguaggio e le immagini semplici ma incisive, proprie dello sguardo di un bambino, è resa bene l’idea della leggerezza desiderata, specialmente nei versi finali.
Se fossi vento
svolazzerei tra le montagne e il mare,
al mio passaggio farei volare
le foglie marroni, arancioni, rosse e gialle
e ricoprirei di tanti colori tutta la valle.
Se fossi un musicista,
suonerei una bella canzone
per dire a tutti che è arrivata una nuova stagione!
Se fossi la luna
illuminerei sempre la notte buia
tonda vorrei essere
per illuminare la terra e il mare.
Non vorrei la gobba né di qua né di là
con le mie amiche stelle
mi sposterei lentamente
e mi sentirei come un palloncino
tenuto in mano da un bambino.
TERZO PREMIO
Nel breve componimento l’autore fa uso di immagini suggestive, ricche di fantasia e colore. Lo scoiattolo è l’autore e l’autore è lo scoiattolo, in una identificazione di visioni e di sentimenti che rendono il testo poetico piacevole e sorprendente.
Sopra,
sulle ali piumate
della gioia,
scriveva
uno scoiattolo.
Per amor,
lentamente
fece un sorriso
Furibondo.
Il mio cuore è come un pozzo pieno di sogni di Giacomo Zanon
Il brevissimo testo, risultato efficace e pulito di un’attività condotta con la tecnica del Caviardage, paragona il cuore a un pozzo, oggetto che da sempre ha una forte valenza magica e un potente significato simbolico di unione e collegamento tra le più oscure profondità e il cielo. Come in questa poesia che unisce un angusto ambiente sotterraneo e buio a sogni e desideri.
Il mio cuore è come un posso pieno di sogni
Riflessi piumati di Clelia Bobbato
In questo breve componimento la volta celeste acquisisce vita e movimento, ed è immaginata dotata di propaggini, le ali piumate, in grado di far sbattere le finestre e di produrre così un effetto sonoro. La visione di questa immagine si chiude con il sorriso, forse di uno spettatore che casualmente si ritrova ad assistere alla scena: potrebbe essere proprio questo sorriso il delicato riflesso delle ali del cielo.
Le ali piumate del cielo
in una finestra che sbatte,
effetto sonoro,
che accompagna le risposte
suggeriva una vita,
di un sorriso stampato in faccia.
Il gatto Pippo di Evita Bianchini
Non poteva che chiamarsi Pippo il gatto protagonista di questi versi: giocherellone, allegro e un po’ monello. L’ autrice si immedesima in questo animale vispo e furbo, forse proiettando in esso alcune sue caratteristiche, mentre gli fa compiere qualche marachella in cucina. La bellezza della poesia è data, oltre che dal contenuto, dalla rima baciata che le conferisce un ritmo allegro e vivace, divertendo il lettore con leggerezza.
Io sono Pippo,
il gatto chiatto
che va in cucina
e ruba la farina.
Preparo una frittatina
con la salsiccia e la polentina.
Per prepararla sporco dappertutto,
provo a pulire ma rompo di tutto.
Mi nascondo in cantina
perché ho distrutto la cucina.
Il mio padrone si arrabbia
e se mi trova mi chiude in gabbia.
Ma quando la frittata si è mangiato,
con la pancia piena a letto se n’è andato.
Scuola Secondaria
PRIMO PREMIO
Utilizzando un’unica lunga personificazione, l’autore (autrice) sembra voler raccontare le dinamiche dei rapporti interpersonali. La descrizione delle note sulle righe di un quaderno di musica, il loro muoversi “su e giù per i fili di un pentagramma”, ricorda che i singoli suoni diventano importanti quando, insieme, formano gli accordi. Il richiamo pascoliano della ninna nanna è la ciliegina sulla torta.
Danzano sulle righe
come fossero ballerine.
Alcune si tengono per mano,
altre si seguono da lontano.
Saltando su e giù per i fili di un pentagramma
creano una suadente melodia,
come una dolce ninna nanna
canticchiata da una giovane mamma.
SECONDO PREMIO
Nella breve poesia l’associazione di idee e di sentimenti si susseguono come a comporre un vivido “brainstorming” della vita, a partire dalla visione o dal ricordo di una semplice foglia arancione.
Le rime e le assonanze di cui il testo è ricco creano un ritmo incalzante che sa coinvolgere il lettore in questo dipanarsi di immagini e suggestioni.
Una foglia arancione
è paura, è avventura,
è gioia, è noia,
è una corrispondenza
tra luci e vento,
è riuscire,
è nascondersi,
è crescere,
con un mare, con umore,
è accettare,
è fierezza,
con un niente,
il deserto, è una grandezza.
TERZO PREMIO
Nella sua semplicità la poesia fa emergere l’albero come “soggetto principale” esprimendo la tristezza del vuoto che lascia ai suoi amici, come esperienza di lutto, sottolineando il pianto metaforico dei compagni.
Il componimento trasmette un profondo messaggio di amarezza per il danno alla natura e suggerisce un velato paragone sul taglio di vite spezzate.
L’uomo sega
gli alberi piangono.
Gli alberi piangono
Perché l’uomo abbatte i loro amici.
Scuola Secondaria di II grado
PRIMO PREMIO
Quattro quartine di endecasillabi, una vera e propria lirica non rimata ma con la presenza di studiate e scelte figure retoriche (sono presenti sinalefi, metafore ed enjambement), Ode ai caratteri mobili dell’universo è una poesia di rara e delicata scrittura, intonata alla vita, al desiderio intimo di palesare alla natura l’identità coraggiosa ed intrepida di adolescente.
Un’invocazione alla natura, al mondo degli adulti, al tempo in divenire, un grido accorato di esagerato ma motivato desiderio di raccontare la propria essenza, i propri pensieri, la propria metamorfosi, la gioia derivante dalla consapevolezza della crescita, della potenza della giovinezza, dei sentimenti vigorosi provati da un fanciullo che diventerà un uomo.
La poesia è scritta con lessico raffinato, a volte aulico, ma al contempo tesa ad una fortissima modernità, i sentimenti sono espressi con metafore forti ed efficaci.
Voglio gridare a questo cielo chi sono,
cangiare come la luna d’argento,
scorrere come l’animoso sangue
fra le pagine della vita che ho.
Voglio esibire al mento ingordo altrui
certezze scalmanate di fanciullo,
il sogno posato che corro verso,
la sete che presento tra le fauci.
Voglio agire scapestrato, testardo d’ardore;
celebrare i frutti liquidi desunti dal fuoco,
il verbo copioso d’odio d’auriga,
la gioia terrena del mio caduco tempio.
Voglio e desidero divenire atto adulto
per adeguare la mia duttile forma;
in un presente che trapassa senza fine,
rimango ancora, ipallage del futuro.
SECONDO PREMIO
La poesia riabilita la forma del sonetto, conservandone le strofe, ma personalizzandone versi e rime. Prevale il susseguirsi di immagini, in cui più volte fa capolino il silenzio, figurazione della mancata comunicazione. Le suggestioni sensoriali sembrano dominare, fino all’articolata sinestesia degli animi che “riecheggiano nel gelo di una foto”.
A trovar veri soggetti non sono i professori:
nei diari di silenzi mettono a segno vari errori.
In falesie di stupore si nascondono dal tempo
maestri incantatori che sanno catturare il vento.
Il volto di una donna scompigliata dai sonagli
del giudizio di sé stessa, confinata negli sbagli
volge gli occhi all’obiettivo. Il silenzio protratto untore;
coperto da crespi ciuffi, rimbomba secco il fragore.
Il richiamo della retina si arresta nel vuoto:
un impulso interrotto, lo scompiglio giace affranto.
Eppur, gli animi riecheggiano nel gelo di una foto.
Le lunghe correzioni si rigettan tra i ricordi:
tenui strette cicatrici tesseranno un grigio manto,
capace d’eclissare torbidi pensieri sordi.
TERZO PREMIO
Breve componimento, dal sapore quasi ermetico, Dente di leone è una poesia delicata di descrizione di un semplice e quasi banale elemento della natura, un fiore che si trova nei campi a primavera, che nasce spontaneo ma che improvvisamente colora potentemente di giallo lo spazio verde dei prati. Destinato ad una trasformazione impercettibile, il fiore assume via via aspetti diversi, sfida la fugacità del tempo che corre, resiste alla metamorfosi, impreziosisce la vita di chiunque lo guardi.
Semplice ma raffinata poesia, quasi un dialogo con la natura, con la vita che passa, incurante dei cambiamenti.
Dal seme nasce il fiore
dal fiore nasce il giallo,
pianta vivace.
Dal vivace muta il fiore
nasce soffice grigio,
pianta opaca.
Avvilito col tempo
tempo fugace,
fugace il felice.
Dal grigio nasce la vita
la vita nata dal vento,
nuovo tempo.
Esso ha colore, vedi?
Che non è più colore.
Leone a denti stretti,
sei cambiato
e hai resistito.
Le stagioni di Davide Ferraro
Breve componimento, dal sapore quasi ermetico, Dente di leone è una poesia delicata di descrizione di un semplice e quasi banale elemento della natura, un fiore che si trova nei campi a primavera, che nasce spontaneo ma che improvvisamente colora potentemente di giallo lo spazio verde dei prati. Destinato ad una trasformazione impercettibile, il fiore assume via via aspetti diversi, sfida la fugacità del tempo che corre, resiste alla metamorfosi, impreziosisce la vita di chiunque lo guardi.
Semplice ma raffinata poesia, quasi un dialogo con la natura, con la vita che passa, incurante dei cambiamenti.
Sei il vento impetuoso che se ne va, staccando
la tristezza dal ramo, ed io, foglia secca, precipito.
E mentre l’eco delle tue parole scompare rapido,
il tuo sorriso diventa nebbioso e smarrito.
Senza di te rimane un deserto gelido,
portando l’inverno più freddo del Cocito.
Il cadere della neve diffonde un silenzio candido,
che copre il mio infelice e solo spirito.
Ma ad un tratto i cinguettii rinascono,
il dolce canto della tua voce riempie le mie giornate di amore.
Dal buio puro rinascono i fioriti colori.
E sbocci di un rosso vivo, i tuoi petali si aprono,
e infuocano il mio freddo cuore,
te, che sei una rosa in un campo di girasoli.
Sezione Università e età adulta
PRIMO PREMIO
Breve componimento, dal sapore quasi ermetico, Dente di leone è una poesia delicata di descrizione di un semplice e quasi banale elemento della natura, un fiore che si trova nei campi a primavera, che nasce spontaneo ma che improvvisamente colora potentemente di giallo lo spazio verde dei prati. Destinato ad una trasformazione impercettibile, il fiore assume via via aspetti diversi, sfida la fugacità del tempo che corre, resiste alla metamorfosi, impreziosisce la vita di chiunque lo guardi.
Semplice ma raffinata poesia, quasi un dialogo con la natura, con la vita che passa, incurante dei cambiamenti.
Era il mese di settembre, torrido e di poche parole,
i grilli a cadenzare il giorno
umido di sudore e di pochi sogni, di una ripetizione di gesti
che, lenti e misurati, erano gli stessi,
Berlinguer che improvvisamente svaniva dalla televisione
ed io che sognavo la maggiore età
con un libro di Tondelli e un 33 giri sotto braccio
con mio padre, scalzi sulla nostra terra
che ci confermava zolla dopo zolla di essere i suoi figli,
sceglievamo quei grappoli d’uva
che si lasciavano indovinare come amuleti dalle nostre dita,
ognuno fiero nella carne piena e matura
con il sole nel grembo a fare le fusa
e rivelare una piccola promessa che profumava liberamente
della parte buona del mondo
in una riconciliazione con le virgole mai dritte del vivere
ci rendeva felici la cura della storia dei nostri filari
che riposavano nelle culle di legno
ognuno con l’attesa in ascolto dell’orizzonte.
Di là, nella mezzaluna d’ombra, i nonni
ad occhi chiusi e con un ventaglio erano in balia dei ricordi,
sospesi in un passato al presente;
mia madre, in casa, studiava instancabilmente la Bibbia sottovoce
e la sua impronta forgiata dal padrenostro
non lasciava eco.
Era il mese di settembre, torrido e di poche parole,
di struggimenti liquidi per l’incertezza di crescere, di diventare uomo,
mentre l’amore restava una parola d’ape che bruciava
tra una pagina, una sigaretta e un grappolo d’uva ancora.
SECONDO PREMIO
25 versi di brevissima lunghezza, uno sguardo rapido su molteplici sentimenti, Tenebra liquida è un componimento descrittivo molto intenso e profondo.
La casa raffigurata è la metafora dell’oscurità della notte, della profondità del mare, della solitudine di chi annega le proprie sofferenze in ogni onda, in ogni scroscio di acqua, nella luna che illumina la volta del cielo.
Un resoconto amaro, dettato però dalla speranza che il buio, il buio infinito, possa custodire e conservare i ricordi, le esperienze vissute, i sentimenti provati.
La mia casa sta
in ogni mare di notte.
Ogni solitario pontile che si staglia
su quella tenebra liquida
macchiata
da una pennellata di luna.
In ogni scrosciare d’onda
in cui s’annegano
le mie sofferenze,
e la mia solitudine
che come goccia
s’unisce
a quel mare oscuro,
in cui ho lasciato
le migliori risate
e le lacrime peggiori.
E anche ora,
che qui da solo ti ammiro
o buio infinito,
lascio nel cuore tuo
ciò che nel mio più non entra.
Custodisci, per me
questo ricordo.
Questo pensiero.
Questo dolore.
TERZO PREMIO
Breve lirica di reminiscenze perdute, Anamnesi è una visione fatta di intrecci, ricordi, viaggi non fatti, momenti trascorsi, interrogativi senza risposte. Rivolta a qualcuno che ha vissuto intensamente e che ricorda ancora fortemente tutte le opportunità vissute nel passato, teso a far rivivere le emozioni che il destino ha contrastato.
Il linguaggio è molto evocativo e la trama poetica stimolante.
Una marea di ricordi,
un libro a sogni aperti
Viaggi fatti per sfinirti,
portali aperti.
In che mondo volevan mandarti?
era possibile che i momenti persi,
quelli scostati e al destino avversi,
potessero dire al varco di aprirsi,
-scintille e fulmini, fuoco e fiamme-
Quanti volti su cui soffermarsi
eppure tra tutti quelli certi,
ne cerchi uno che dal passato ti porti,
memorie tra i tempi intessi,
contorti perché aggrovigliati intagli,
di vita a tutti gli effetti,
poiché ci sei ancora e te lo ricordi
Silenzio di Daniela Cecchetto
L’autore/l’autrice elenca nei primi 9 versi ciò che più lo addolora, con riferimenti espliciti alle guerre e alle morti conseguenti. Il tono, dapprima dispiaciuto, si fa arrabbiato e furente nei versi centrali per poi assumere i colori dell’amarezza e della delusione alla fine del testo. L’uso del dialetto, ricco di termini dialettali “puri” (“sciopa”, “cria”, “ziga”, “crapa”), risulta aspro, duro e forte, come duro e forte è il tema trattato, ovvero la necessità del silenzio per calmare un cuore ferito e triste, contro l’inutilità di parole vuote, o approssimative e superficiali, atte solo a far notizia e a correre di bocca in bocca.
No go pi paroe
par i tosèti negai
par i morti copai
co e zenge che sciopa
co i giornai brusai.
No go pì fià
par sonar sta tronba che ciama al sienzio!
Par scoltar sta fèmena che cria che ziga,
che more da soea.
Basta paroe che te inpiena a crapa
tuti che insegna, tuti che sà.
Sienzio!
Basta busìe sconte dadrio un fusìe.
Basta discorsi par far notissia
che no me dixe pì gnente
tante bae i ghe conta aea xente.
Sienzio!
El sienzio dea tronba
xe l’unico de essar scoltà
xe l’unico che mostra a verità.
Sienzio!
Soeo el sienzio poe smorsar a rabia, a deuxion
soeo el sienzio poe colmarte el core…
par tuta a vita!!!
Insacca caivo di Francesco Quarto
In questo componimento straziante l’autore dà voce a chi voce non ha più, a chi ha perso, o sta perdendo, inesorabilmente la memoria, affetto forse da quella fatale malattia che confonde, annebbia i ricordi, scuce la trama dei ragionamenti e sfila il senso dei discorsi. Il protagonista però ne è consapevole e per questo avverte chi gli sta vicino dicendo che c’è ancora, che ancora è vivo e ripercorre qualche ricordo della vita passata. Struggente e forte l’immagine finale “Lavo buei, insacco caivo”, resa dura e lancinante dal dialetto veneto, nella descrizione di un uomo che stipa e ammucchia nebbia fitta e densa, ricordi sfocati e annebbiati. Poesia che celebra la perdita di sé in una società che sempre più ci vuole orientati, puntuali, informati, all’altezza di ogni situazione e perfettamente consapevoli del chi e del dove.
Io sono qui,
nel tempo che sai
fermoimmagine
di gesti che tu rivedrai
rivolto solo al passato,
o tu credi che l’abbia scordato?
Io sono qui,
non ricordo ma vivo,
assaporo lo stesso istante
ogni volta improvviso
un concentrato di vita
una rinascita eterna, infinita.
Il pallone scorre su fogli rosa
un’emozione intensa, preziosa.
Quando girerà per l’ultima volta,
vi stupirò ancora, ma ora ascolta,
ora son io a guardarvi distratti,
perché mi cercate fra i matti?
Io resto qui,
dove son sempre stato
sempre, se non l’avrete scordato,
i miei occhi ora vedono te,
ma tu, non vedi più me.
Guardami col cuore felice,
io sono qui nel cortivo,
son quello che dice
lavo buei, insacco caivo.
E fu a quell’età… Venne la poesia a cercarmi. Non so, non so da dove uscì, da quale inverno o fiume. Non so come né quando, no, non erano voci, non erano parole, né silenzio, ma da una strada mi chiamava, dai rami della notte, all’improvviso tra gli altri, tra fuochi violenti o mentre rincasavo solo, era lì senza volto e mi toccava.
Da Memoriale di Isla Negra, Pablo Neruda (1964)